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Delle tre venute di Gesù Cristo

 

Dai Discorsi del Servo del Dio Didaco Bessi

Delle tre venute di Gesù Cristo1

Il grande avvento della umanità caduta e riparabile si stende per oltre a quattromila anni; che tanti ne corrono dalla creazione alla redenzione; dal tempo in cui l’uomo fu tratto dal nulla, al tempo in cui quest’uomo fu tratto da un profondo più desolato del nulla, dal peccato. E questo tratto lunghissimo di tempo, la cui storia è registrata a caratteri divini dal dito stesso di Dio, ne’ libri dell’antico Testamento, fu una continua espettazione un continuo sospiro verso il promesso e l’aspettato riparatore. Una speranza un desiderio sì lungo sarebbe stato troppo doloroso ai padri nostri, se la divina Bontà non gli avesse confortati con ripetute promesse, per bocca dei profeti, e con vive figure, che lasciassero vedere almeno in ombra il desiderato. Così Dio rianimava i cuori e gli sanava colla fede in Colui che dovea venire. Le promesse e le profezie cominciarono subito dopo il peccato di Adamo. Anzi Adamo stesso è ravvisato da S. Paolo e dai Padri della Chiesa come una figura di Gesù Cristo, il quale non isdegnò di esser chiamato l’Adamo secondo. Ed invero Egli è il nuovo Adamo, non solo per contrapposto delle opere, le quali furono di morte nel primo, e di vita nel secondo, ma altresì per somiglianza di dignità, perché come il primo fu capo e principio dell’uman genere per la generazione carnale, così Cristo è capo e principio degli uomini per la generazione spirituale. Che più? Eva stessa, prima fonte del male, reca nella scrittura un riguardo profetico alla Redenzione. Imperocché è chiamata da Dio Madre dei viventi. Ma come dei viventi? esclama2 S. Ilario. Non dovea dirsi piuttosto dei morti, essendoche non avrebbe partorito che morti alla grazia? Ma quando Dio così la chiamava non mirava a Lei, ma alla seconda Eva, a Maria. Come a Maria mirava in quelle parole al serpente, Ella schiaccerà il tuo capo; parole che ben a ragione furono dette il primo Vangelo. Oh bontà di Dio! quasi nell’atto stesso che l’uomo a Lui si ribellava, prometteva il perdono, e gli faceva vedere nella lontananza de’ tempi il riparatore. Da quel punto non cessarono mai più le promesse fino al loro compimento. Tutti quei quattromila anni furono una continuata profezia, una serie non interrotta di figure. Ma quello che i Padri nostri aspettavano, noi lo possediamo. Ma la fede la carità nostra somiglia essa quella dei Padri nostri? Dovrebbe infinitamente superarla, s’egli è vero, com’è certissimo, che il possedimento del benefizio, è felicità infinitamente più grande della sua promessa. Su via, Revdē Madri, scotiamoci dal nostro torpore. Tempus est jam nos de somno surgere. E poiché la Chiesa c’invita a considerare tre diverse venute di Gesù Cristo, uniformiamoci al suo spirito, e consideriamo 1° Gesù Cristo venuto nel mondo per rinnovarlo. 2° Gesù Cristo venuto nelle anime colla sua grazia, per dimorarvi e santificarle 3° Gesù Cristo che di nuovo verrà nel mondo alla fine dei secoli, per giudicarlo.

1. Gesù Cristo venne a rinnuovare il mondo. E che cos’era il mondo prima della sua venuta? Un abisso di miseria. Io non vi descriverò le abominazioni a cui si erano abbandonati gli uomini anche più dotti; dirò solo della ignoranza in cui essi erano prima di Gesù Cristo intorno ai punti più capitali della loro salute; ignoranza che si ravvisa in quelli pure che avevano più nome di sapienti. Chi avesse domandato a quei gran filosofi: che cos’è questo Universo? chi lo ha così costituito? V’è una potenza che lo ha tratto all’esistenza? Una mente che lo governa? Una mano che lo sostiene? E l’uomo che cos’è? donde viene? dove va? qual è il suo principio? quale il suo fine? che dee credere? che dee fare? Che cos’è la vita, e come dee conformarsi? Che cos’è la morte? è il fine di tutto, o il principio di tutto? Di là da quella poca terra ammucchiata che si chiama sepolcro v’ha egli altro? Chi facesse ora queste domande a un fanciullino che fosse di poco oltre gli anni della ragione, risponderebbe con prontezza, con sicurezza, e senza esitare un momento. E chi le avesse fatte a quei gran sapienti dell’antichità, che si facevan chiamare filosofi, avrebbero detto di non saperne nulla. E questa sarebbe stata la risposta men cattiva che avrebbero potuto dare. Perché quelli che su questi punti pretesero di dire qualche cosa, o dissero cose molto incerte e piene di oscurità, o dissero errori così sformati da muovere il riso e la compassione. Eppure il conoscere con certezza la verità di quei punti importava tanto, che senza una tal conoscenza era impossibile all’uomo conseguire il suo ultimo fine, a cui si sentiva formato, cioè la felicità. Ben è vero che Dio tra tutti i popoli se ne prescelse uno e lo fece depositario e custode della sua verità. Ed è quel popolo stesso a cui furono fatte tante promesse del riparatore. Ma anche questo popolo come ci si presenta di dura cervice nella Scrittura Santa! Come materiale! Come inchinevole all’idolatria! come pronto a mormorare di Dio, sebbene ricolmo a ogni tratto de’ suoi benefizi. Dio lo governava colla sua stessa voce: lo faceva camminare di continuo in mezzo ai prodigi della sua bontà e della sua potenza. Eppure quante volte nelle sacre pagine lo vediamo prevaricatore? Tanto prevaricatore da anteporre a Dio un vitello d’oro! tanto stolto da sentir nausea della manna e da sospirare le cipolle d’Egitto. E non aveva egli stesso bisogno di essere rinnuovato? E’ vero che la luce di Gesù Cristo venturo si rifletteva sopra lui, ma il sole stesso che mandava da lungi quella luce non era ancor sorto a diffondere la vita. E frattanto qual’era la sorte degli uomini prima di questa venuta? Ahime! Schiavi del demonio pel peccato del primo padre, privi di quella grazia da cui Adamo scadde miseramente, trascinati nelle abominazioni del senso, e nella ignoranza della mente, popolavano dopo la morte il regno del demonio. E’ vero che l’Agnello essendo stato ucciso fin dalla origine del mondo, chi avesse voluto sfuggire la dannazione poteva, osservando quella legge che Dio ha stampato in tutti i cuori: e ne abbiamo esempio in Giobbe che sebbene non appartenesse al popolo eletto, visse innocente e meritò la divina predilezione: e ancora ne abbiamo esempio in quel Cornelio Centurione, che sebben gentile, ebbe grazia da Dio. Ma quanto era difficile! E’ vero altresi che la fede in Gesù Cristo venturo dava la salute: ma finchè non fosse venuto e non avesse consumata sulla Croce la grande opera, i giusti dell’antico patto non potevano salire alla immortale beatitudine della visione di Dio.

Ecco dunque che cos’era il mondo prima della venuta di Gesù Cristo. E dopo la sua venuta che cos’è? Qual’è la condizione dell’uomo? Basta una parola per definirlo pienamente. Per Gesù Cristo la condizione dell’uomo è, rispetto al suo fine ultimo quale appunto era quella di Adamo innocente. Che cos’era che rendeva felice Adamo in quello stato? la grazia santificante che lo rendeva grato a Dio, figliuolo adottivo di Dio, partecipe della divina natura, e idoneo a godere Dio faccia a faccia eternamente. Ebbene quella prodigiosa grazia, della quale Adamo fece gitto dandosi al demonio, Gesù Cristo è venuto nel mondo a restituircela pienamente. Dio Redentore ha restituito all’uomo quella grandezza, quella dignità, quella eccellenza, quel fine beatissimo, che Dio Creatore aveva dato a Adamo, e che Adamo per la sua mala volontà ebbe perduto. Ella è precisamente quella stessa grazia. Sennonchè nella Redenzione Dio ha fatto ben più che nella Creazione. Nella Creazione se l’uomo non era degno di ricevere quel prezioso ornamento, non era neanche indegno, perché non aveva ancora peccato. Ma nella redenzione quell’ornamento è dato all’uomo peccatore, all’uomo nemico di Dio. Nella creazione Dio dando la grazia infuse nell’uomo un elemento divino. Ma nella Redenzione, non solo un elemento divino, ma l’Unigenito suo stesso gli ha dato che è Dio come Lui, e d’una stessa sostanza con Lui. Proprio filio suo non pepercit, sed pro nobis tradidit illum. Onde nella Redenzione abbiamo più guadagnato per Gesù Cristo, di quello che non avessimo perduto per Adamo. Però la Chiesa non ha difficoltà di cantare nei sacri ufficii del Sabato Santo “O felix culpa, quae tantum et talem meruit habere Redemptorem”. Oh colpa felice che meritò di avere un sì grande Redentore.

2. Gesù Cristo non solo venne nel mondo, ma venne altresì nelle anime, e venne con quel tesoro che ora ho ricordato; colla grazia. Chi questo tesoro possiede ha veramente in sè Gesù Cristo “Vivo jam non ego, vivit vero in me Christus”. E con Gesù Cristo ha in sé il Padre, e col Padre il Santo Divino Spirito. Perché le Persone divine della Triade Augusta sono distinte, ma non divise, e l’una è nell’altra, e dov’è l’una è l’altra. Però dell’anima che è in grazia dice Dio “Veniemus in eam et mansionem apud Deum facemus”. Verremo in quell’anima e in essa stabiliremo la nostra dimora. Ecco come l’anima rivestita della grazia santificante diviene come tempio della Santissima Trinità. Chi possiede Gesù Cristo, possiede anche il Padre, Pater in me est et ego in Patre, dice Cristo stesso: e possiede altresì lo Spirito Santo, perché la carità viene infusa ne’ nostri cuori per lo Spirito Santo che ci è donato. Charitas diffusa est in cordibus nostris per Spiritum Sanctum, qui datus est nobis. O anima grata a Dio, quanta non è mai la tua ricchezza! la tua bellezza! tu sei un Paradiso! e cominci fin di quà a goderne la beatitudine! O anima felice! come non devi tu essere gelosa custode di questo prezioso tesoro della grazia che il tuo Gesù è venuto a portarti colla sua ineffabile incarnazione! Paragona quello che sei con quello che eri prima della redenzione! Qual differenza! Allora albergavi l’odio, ora alberghi l’amore; allora eri il ricetto del demonio, ora sei il tabernacolo di Dio, allora eri un oggetto di dannazione, ora sei un oggetto di gloria. Quanta non deve mai essere la tua premura, la tua operosità, la tua diligenza per non perdere codesto felice stato! Imperciocché se tu lo perdessi, come potresti sperare che Dio ti rialzasse di nuovo, e che volesse renderti il tesoro perduto? Ah! che questa premura dovrebbe pur essere di tutte le anime ricomprate col sangue di Cristo3. Ma quante son quelle che fanno stima della grazia? Quante per contrario non sono quelle che per ogni lieve cagione la ributtano da sé e la pospongono a ogni più vile soddisfazione? Tal’è la cecità dell’uomo. E tuttavia se quest’uomo, torna a penitenza, Gesù è così buono e così placabile che quante volte il peccatore si pente, tante egli torna ad abitare nell’anima sua colla grazia! Donde si vede che questa seconda venuta nelle anime non si effettuò una volta solamente, come la venuta nel mondo; ma bensì ella si effettua ogni giorno, ogni istante, ogni volta insomma che nel tribunale della penitenza il Sacerdote alza la mano per proferire quelle preziose parole “Io ti assolvo”. Oh bontà infinita! Oh ineffabile amore!

Fin qui io vi ho parlato della grazia interiore che trasforma ed eleva l’anima al consorzio di Dio, che è la più preziosa. Né v’ho detto nulla dell’aumento di cui questa stessa grazia è suscettiva fino al punto che si vede nella vita maravigliosa dei Santi. Ella può giungere fino al segno di unire si strettamente l’anima a Dio, da restare come inabissata nella sua luce, e da riceverne come la partecipazione de’suoi attributi, della potenza ne’ miracoli, della chiarezza colla penetrazione dei divini misteri, della beatitudine coi rapimenti e colle estasi. Questa grazia interiore, com’io diceva, è la più preziosa di tutte, sì per la sua essenza, sì pei maravigliosi aumenti che può ricevere. Ma però saranno meno apprezzabili le grazie esteriori che Gesù Cristo è venuto a portarci? Che diremo della grazia della sua dottrina, colla quale ha illuminato il mondo, rivelando i tesori delle sue verità, alle quali la inferma nostra ragione non avrebbe potuto arrivar mai. Voi, o Revdē Madri, lo avete sentito poc’anzi che cosa fecero e che cosa seppero que’ famosi sapienti dell’antichità, privi di questo lume. Andarono di errore in errore avvolgendosi in tenebre sempre più fitte e desolate. Ma ora mercè dell’insegnamento di Gesù Cristo, un fanciullo, un bifolco, una donnicciuola sa più e meglio intorno alle grandi verità che riguardano il fine dell’uomo, che non seppero i più famosi filosofi del tempo antico. Ecco gli ineffabili benefizi della venuta di Gesù Cristo nel mondo, venuta che i Padri nostri ebbero tanto a sospirare, benefizio grande che noi ora possediamo, redenzione che noi non aspettiamo ma che ne godiamo gli immensi frutti. Quanto superiori non siamo ai nostri Padri! E non dovremmo essere altresì superiori nel fervore dello spirito, e nella riconoscenza del cuore verso Dio e il suo divino Unigenito da cui abbiamo ricevuto tanto bene? Certo dovremmo. Ma esaminiamo noi stessi e vediamo se la cosa stia così nel fondo del nostro cuore. Quanto non manchiamo noi verso Gesù! Non parlo di chi mortalmente l’offende, di chi rigetta assolutamente la sua grazia, perché questo non è il luogo. Ma parlo di quella corrispondenza che dovremmo prestargli con tutta l’anima con tutto il cuore con tutte le forze. Chi è che non abbia a rimproverarsi su questo punto? chi è che possa credere d’aver corrisposto e di corrispondere a Gesù redentore come si deve, se anche i più gran santi, se anche gli Apostoli stessi, dopo aver tanto faticato, ebbero a dire dal fondo del cuore “servi inutiles sumus” servi inutili siam noi! E noi che dovremmo dire? Oh, Reverende Madri, chiediamo a Gesù questa piena gratitudine, questa perfetta corrispondenza ai suoi ineffabili benefizi. Dico perfetta quanto è dato alle nostre meschinissime capacità! Dico ancora che chiediamo, perché che cosa mai potremmo levare dal nostro fondo, se non miseria di peccato? Nulla possiamo fare in ordine al fine e alla vita soprannaturale, se non ci è dato da Dio. Chiediamo dunque, preghiamo, scongiuriamo nelli assidui gemiti dell’anima la grazia di poter corrispondere degnamente alla divina carità. Affrettiamoci ora che è tempo: ora che possiamo tutto fare, tutto ottenere dal Redentore nostro amorosissimo. Affrettiamoci, perché egli è per venire l’ultima volta: non più come Redentore, ma come Giudice, non più amabile, paziente, benigno, ma severo e inesorabile. (…) Scuotiamoci da un torpore che potrebbe facilmente cambiarsi nella eterna immobilità della morte. Tempus est jam nos de somno surgere: abiiciamus opera tenebrarum et induamur arma lucis.

Non vi ha rimprovero che meglio convenga alla maggior parte di noi Cristiani di quello di essere accusati come dormiglioni. Ed invero come potrebbe spiegarsi quella indolenza che ispira un certo disgusto delle cose di Dio? quella illusione, colla quale ci abbandoniamo a una continua dissipazione? E’ un sonno che indebolisce l’anima del cristiano, e noi dobbiamo far di tutto per non rimanere immersi in questo sonno fatale. Noi, o Revdē Madri, abbiamo scelto uno stato più perfetto, dunque bisogna vegliare, per non mancare alla promesse che abbiamo fatte a Dio. L’obbligo nostro è quello di vivere in Dio per Gesù Cristo. E vivere in Dio vuol dire farne l’oggetto del nostro amore, e l’ultimo fine di ogni opera nostra; detestare tutto ciò che la legge divina proibisce, e praticare tutto ciò che essa comanda; prender per regola quei principii immutabili di santità, di giustizia e di bontà, che derivano dall’essenza di Dio; rendere al suo santo nome, coi pensieri, colle parole e colle opere, gli omaggi che Egli ha diritto di esigere da noi; in una parola tendere a quella perfezione proporzionata alla fragilità della nostra natura. Ecco che cosa vuol dire vivere in Dio. Viver per Gesù Cristo significa, prenderlo per modello, seguire il suo Vangelo, attender tutto dalla sua grazia, e questa domandarla continuamente colla preghiera, attirarla colla pratica della virtù dell’umiltà, conservarla colla vigilanza, aumentarla colla freguenza dei Santissimi Sacramenti. Così operando noi vivremo in Dio per Gesù Cristo, e per i meriti di Gesù Cristo regneremo in Dio nei secoli dei secoli.

1 Ad S. Domenico 87,  S. Pietro 88, As Salesiane 92

2 Le sclama

3 Le Christo

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